Vomero

Nota n. 59 del mio libro.

Sono figlio di quella terra dove ho vissuto gran parte della mia vita.Affiorano alla mia memoria tanti ricordi.La memorabile nevicata del 56, quando il fratello più piccolo di papà, zio Antonio, e i cugini Enzo, Enrico ed Italo usarono, come pista da sci, la “discesa del capitano” nella villa Belvedere al “Vomero Vecchio”, nei pressi di villa Giordano dove abitavano nonno Mimì, di cui porto il nome, e nonna Mentina. Ho scolpito nella memoria la gracile, minuta figura di, don Mimì, così affettuosamente lo chiamavano tutti, quando dava una pacca sulla spalla a un suo coetaneo, forse un amico, che, meno fortunato, guadagnava la giornata  con il “bancariello” per le appizzate dei fichidindia, che apriva quotidianamente sul marciapiede di via Belvedere, sempre allo stesso posto.

Di fronte a villa Belvedere c’era la villa di zio Mimì, il fratello di nonna Mentina. Era il medico dei vomeresi. In quella enorme casa, ogni anno, ci riunivamo tutti (eravamo veramente tanti, compreso  Ronny, il fedele cane lupo) per festeggiare la santa Pasqua, Natale e Capodanno. Il garage della villa era “l’officina” dove papà, zio Antonio e i loro cugini costruivano ogni anno il carruoccio per partecipare alla tradizionale corsa lungo le pericolose discese di via Morghen. Quelle “sofisticate” macchine, figlie di accrocchi composti da una tavoletta che aveva per ruote quattro cuscinetti a sfera, tanto usati dai cosiddetti “ragazzi di strada”, avevano le forme più strane; il primo carroccio dei miei parenti rappresentava l’edicola di un giornalaio: per niente aerodinamico, all’esordio, in curva, si ribaltò:fortunatamente nessuno si fece male.

Mi rivedo mentre attraverso ogni mattina le “montagnelle” per andare alla succursale della scuola elementare Quarati, in villa Belvedere. Esse congiungevano via Belvedere con via Fracanzano, dove,  al secondo piano del n°25, di fronte al palazzo delle Poste, mamma, all’alba di un nevoso 6 marzo di cinquantaquattro anni fa, mi ha partorito in casa, senza assistenza e con la “camicia” (me lo diceva spesso con orgoglio). Le montagnelle oggi sono diventate l’incrocio tra il ponte di via Scarlatti con quello di via Gemito.

Rivivo le indimenticabili partite di calcio ai Salesiani, dopo avere ascoltato la messa domenicale delle dieci e dopo avere mangiato la “graffa”offerta dall’oratorio diretto dall’indimenticabile padre Di Lorenzo; le avvincenti partite del Napoli allo stadio del Vomero, quando i giocatori erano veri atleti e vivevano in gruppi in stanze prese in affitto. Al quarto ed ultimo piano del palazzo ove abitavo,c’erano Di Giacomo, Posio, Fontanesi, Greco, Bertucco:li ricordo come se fosse oggi. A volte l’indimenticabile “zio” Beato,amico dei miei,mi portava con lui sul terreno di gioco, facendomi provare l’emozione da mozzafiato di vedere da vicino i miei idoli, primo fra tutti,Vinicio,‘o Lìone. Nella palazzina rossa,sede del Napoli di allora,Marco ha frequentato il liceo ( oggi ha ventisei anni; peccato che papà non l’abbia conosciuto).

Ancora, le giocate a pacchiosa con dietro al masto i ritrattielli  o a pacchero nelle vivibili strade sotto casa,per non parlare delle  partite a pallone con il superflex, comprato dopo una difficile colletta: quanti vetri rotti e quante  precipitose fughe con il cuore in gola per la paura (anch’io ero un  “ragazzo di strada”, forse meglio vestito, e ne sono fiero); la incontenibile gioia mia e di Maria Rosaria,mia sorella,che si ripeteva ogni fine luglio, nel vedere mamma preparare il “baule”della biancheria che poi lo spedizioniere veniva a ritirare per imbarcarlo sul“vaporetto”.Quindi la traversata verso  Ischia per le vacanze estive,tra un mal di mare e l’altro,nonostante la xamamina, non ricordo se già si chiamava così,  che immancabilmente mamma o papà ci somministravano; il “viaggio” in motocarrozzella, che facevamo un paio di volte,  da Porto a Sant’Angelo, dove prendevamo la barca a motore che ci portava ai Maronti e lì un improvvisato ristoratore, in una pagliarella di cannucce di bambù,ci cucinava il pollo mettendolo sotto la sabbia rovente; la malinconia che mi prendeva la sera del ferragosto, quando mamma e papà ci lasciavano con la “cameriera” perché, a dorso di mulo, salivano sul monte Epomeo per trascorrere la notte in attesa di vedere il sorgere del sole.

Come dimenticare il tragico crollo del palazzo ove ora c’è Coin sotto le cui macerie morì zia Elena, cugina di papà; le allegre “mangiate” da zio Totonno, il fratello di  nonno Mimì, titolare della trattoria e bottiglieria in via Bernini; i carri di Piedigrotta, che ammiravo affascinato dal balcone della casa di zia Elena; le ingorde abbuffate di“pastecresciute e crocchè nella storica, e tuttora esistente, friggitoria in piazzetta Fuga, all‘uscita dalle medie “Viale delle Acacie” (in quella scuola, durante l’ora di educazione fisica, vidi per la prima volta Annamaria. Mi colpì perchè, al posto della tuta, indossava dei pantaloncini bianchi sotto la gonna. La rincontrai qualche anno dopo, al G.B.Vico, in primo liceo: avevamo sedici anni e frequentavamo la stessa  classe. Da allora siamo stati sempre uniti. Forti del solido patrimonio lasciatoci in eredità dai nostri genitori (una sana educazione, onestà, lealtà e sentimenti semplici), abbiamo costruito insieme tutto quello che abbiamo, tra gioie e difficolta’.Non e ’molto, ma per noi e’ il massimo che si possa desiderare. Al suo amore e ai suoi sacrifici di moglie, prima, e poi, anche di mamma devo, in particolare, la grande soddisfazione e la continua gratificazione che provo nel sentirmi pienamente realizzato nel lavoro. Se  tornassi indietro nel tempo, rifarei esattamente la stessa bellissima esperienza maturata sino ad ora).

Oggi, come ho già detto, abito nella zona dove da giovanetto andavo in campeggio con i boys scouts; nel cosiddetto “Rione Alto”, inesistente toponimo che individua parte di quelle che furono splendide distese di verde e boschi dei Camaldoli ed ora è solo un anonimo agglomerato di cemento. Qualcuno, però, per farci ricordare che anche lì siamo a Napoli, ha fatto trasferire Totò da Santa Maria Antesaecula, dove é nato, in piena Sanità, a via Sigmund Freud.

E il principe ci guarda con tutta la sua fiera comicità!

Quando il tempo me lo consente, prendo la metropolitana collinare e scendo a piazza Vanvitelli. Mi guardo in giro per rivedere il “mio” Vomero, ma la ”vasca” è irriconoscibile.

Manca Caputo ove da piccolo, di tanto in tanto,mamma mi comperava qualche giocattolo e San Giuliano.

In via Scarlatti ritrovo solo la tabaccheria De Santis, Caruso e Soave. Non ci sono più Daniele, con le sue pastiere che di più si avvicinavano a quelle “fatte in casa” e che all’epoca erano il dolce che si mangiava solo alla santa Pasqua, Coppola, dove a quattordici anni,da solo (che impresa) comprai la mia prima “mitica” Lacoste e tanti altri. Il cinema Ideal è stato sostituito dalla galleria Zuppardi e poi dall’attuale galleria Scarlatti. In compenso, però, la strada è stata pedonalizzata e al centro di essa possiamo ammirare una scultura nella quale, con tanta immaginazione, riconosciamo il Vesuvio e il mare del golfo. Non sento più nell’aria l’odore del baccalà  di quell’omaccione grande e grosso che era don Mario in via Merliani né quello del casatiello della salumeria Guarino in via Luca Giordano; la “Croce Rossa” di via Solimena, dove, per la mia eccessiva vivacità, ero praticamente di casa, è stata sostituita da un ambulatorio veterinario, se ricordo bene; di recente è scomparsa anche Standa e al suo posto, griffe della globalizzazione, c’è il megastore “fnac”: mi sembra di essere in un altro posto. Sono da poco passate le due del pomeriggio di una domenica qualsiasi. Sento l’inconfondibile e inimitabile fischio del venditore ambulante di semmente , lupini e noccioline americane: almeno questo c’è ancora!

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